2003 - Aldo Pogliani. Le avventure della forma, nell'omonimo volume monografico presentato al Circolo della Stampa di Milano, Custercast, 2003
E’ la Milano del dopoguerra la città di Aldo Pogliani, nato e cresciuto dalle parti del Ponte della Ghisolfa, rugginoso quartiere dalla difficile topografia divenuto poi celebre per il circolo anarchico che ancora oggi porta il suo nome. Qui è facile perdersi nella strana sovrapposizione delle trame urbane: il groviglio inestricabile degli scali ferroviari della Bovisa e del Portello, il transito curvilineo del viadotto stradale che sfiora i piani alti delle case, la griglia ortogonale della città napoleonica che si incanala verso il Sempione. E’ una città che si ricostruisce, che piange e che ride, che suda e va a lavorare con il tram quando è ancora buio ma che poi, a sera non rientra perché c’è altro da fare; si può suonare in una cantina o ascoltare le note struggenti di Chet Baker al Santa Tecla, o starsene lì a viaggiare con la mente. Aldo Pogliani è giovane e ha ottenuto da una ditta tedesca la concessione per produrre pompe idrauliche per il raffreddamento dei gas compressi e con alcuni soci ha impiantato una piccola società che in un decennio, a partire dal 1960, quadruplicherà; sono questi gli anni della scoperta del “petrolio italiano” e delle mille raffinerie sorte nella Bassa padana, dei grandi poli petrolchimici a punteggiare
l’Adriatico sotto il sigillo del cane a sei zampe. Dieci anni sono un tempo sufficiente per tante cose: per guardare con disprezzo il denaro fatto in fretta e speso ancor più velocemente nel tentativo di allontanare per sempre il ricordo della povertà, per accorgersi che a Cortemaggiore il petrolio era un miraggio, per capire che il mestiere che fai non ti somiglia e la tua strada è un’altra. Per Pogliani questo avviene in un luogo preciso, sul lungomare di Sanremo nell’estate del ’67 quando l’altoparlante da una spiaggia annuncia la vernice di una rassegna di pittura informale con pezzi di Wols, Hartung e Vedova –Ah sì l’Informale, il Nucleare, i Concretisti, l’Astrattismo: chissà se sanno fare veramente un ritratto o chessò una natura morta– come da una cronaca da quella promenade di pullover sulle spalle e Campari e –però! Fa freschetto–. Era invece, la scoperta di pennellate dense, di spazialità oniriche e tridimensionali rapprese in un grumo di segni corposi, impronte gestuali, graffi; era la rappresentazione icastica del transfert psicanalitico, la proiezione segnica della nascita, della vita, del dolore e della fine del mondo.
Era l’esplosione di un desiderio insopprimibile: trascrivere le azioni memorizzate in quei tondi apocalittici, ripetere la stratificazione materica di colori e di geometrie abbacinanti, circumnavigare l’aggregazione cellulare del punto e della retta fino ad abbandonarsi all’automatismo gestuale del dripping e alla sua scrittura. Si è provato molto, lavorando in casa di notte, consumando tela e colore, frequentando i quartieri, le botteghe, sperimentando telai, deludendo mogli e sporcandosi molto; ma ci voleva un luogo. Uno spazio proprio, dedicato all’apprendimento e alla misura perché la ricerca, l’esercizio, coincidono sempre con un luogo; hanno direi un’origine psicologica che si confronta con un topòs: sia esso il ritiro solitario dello studio o la distesa aperta e luminosa del plein air. Via Vincenzo Monti 50 è quel luogo. C’è un cortile fresco e ombreggiato al centro di un palazzo napoleonico nel centro di Milano, che confonde l’essenza giallastra e odorosa dei grandi tigli racchiusi al suo interno con quelli che si allineano lungo la strada battuta dal traffico notarile e avvocatizio del quartiere. E’ in questo spazio conchiuso immerso nel dinamismo febbrile della città che Pogliani si cerca, guadagnando presto quella distanza col proprio passato che ne preparerà il debutto presso il circuito artistico milanese, avvicinandolo alla definizione di un ruolo che soltanto apparentemente si svela per il tramite ritualistico della promozione mondana
e dell’auto-classificazione culturale ma che si rivelerà, al variare dell’ambito concettuale di riferimento, quale originale posizione linguistica e intellettuale. Dopo i primi esiti di una ricerca condotta ai margini di un neo-figurativismo che assimila le valenze atmosferiche del paesaggio lombardo, restituendone impressioni materiche che guardano a Morlotti –nell’accostamento dialettico dei piani riletti come campiture piatte giustapposte– e a Domela –per la frantumazione ellittica dei soggetti nella natura morta– raccolti nella staffetta di personali fiorentine dei primi anni Settanta, è in occasione di una collettiva al Palazzo della Permanente (1972) che Pogliani denuncia l’avvenuta adesione alla corrente eterogenea dell’informale. Mai più indecisioni né ripensamenti dall’accostamento non a un movimento –o peggio a una tendenza– ma a un’esperienza radicale che fin dalle avanguardie degli anni Venti con Hartung, Klee e Wols– aveva scardinato le teorie razionaliste della visione oggettiva per sostituirvi l’universo molecolare delle pulsioni che il visibile, assieme al vissuto, genera nella restituzione percettiva delle cose. Ed è il trionfo di griglie cartesiane ortogonali che si affermano talora dall’intreccio autoritario di una pennellata densa, che assoggetta al proprio ordine la commistione nebulosa delle campiture sottostanti; talora in negativo, per il prevalere del­lo sfondo sulla trama, quasi a violare una regola fin troppo lo­gica.
Accanto ci sono le foreste geometriche di Bissier e le partizioni cromatiche di De Stael: un ensamble di campiture grasse tirate con la spatola ai cui margini si condensano colori acidi, quasi rappresi come le guarnizioni accidentali di una riparazione, come la cicatrice di una ferita nella corteccia di un ciliegio. E’ il critico Mario Portalupi, direttore del mensile “Arterama” a scrivere –(Pogliani) con le sue porosità, i suoi tubercoli di sostanza coloristica, le sue strie, pezzature, campiture, curve largo-lineari e i suoi svampi timbrici si pone in un ambito di figuratività scarna, di spinta espressiva dentro un processo inventivo e antinaturalista (…). Procede svelto sul piano della qualità, del miglioramento, della sua pittura forte incisiva nella stessa deformazione materico-espressionista. Partito da una realtà di spettrali casolari nel verde della campagna, l’artista ha capito che a sommuovere la materia coloristica, a farla vorticare di spatola, di pennello, a rendere fiammante un rosso pungente nel verde umido raggiungeva il massimo del suo rendimento. Così ha fatto…–.1 Pogliani è appoggiato a una grande tela vista da dietro e indossa un camice, è ritratto nel suo studio milanese del quale si intravedono gli arredi scarni: un cavalletto, il calorifero e la porta di vetro smerigliato delle case d’Ottocento; è serio ma ha lo sguardo inclinato di chi ha appena distillato qualcosa di illegale e non può dirlo, ma è ansioso di mostrartelo per misurare il tuo stupore.
Forse è con lo stesso sguardo che accoglie i critici, qualche gallerista e gli amici collezionisti che gli fanno visita, in quella Milano primi anni Settanta della Maserati Ghibli arancio e dei pranzi nel parterre dei “4 Mori” con il velluto, o il lino, sempre impiastrato d’ocra e blu cobalto. Luciano Budigna, Luigi Carluccio, André Verdet, la Veronesi, Zeri ma anche i galleristi: Ortelli, Lorenzelli padre, Marconi, sono quelli che scrivono di lui, che si intrattengono ben oltre l’orario di chiusura alle vernici delle personali e delle molte collettive. Una valanga tra il ’72 e il ’78. A Gallarate si misura con Emilio Scanavino in una triangolazione espositiva ricca di suggestioni primordiali, dove si fondono geometrismi fossili con grafismi materici alienati; a Sanremo è più volte con i brutalisti francesi Fautrier e Mathieu –anche se la frequentazione assidua della Riviera mostrerà in seguito motivazioni meno legate alla produzione artistica– e ancora Torino (Galleria Pace, 1972) in compagnia di Carla Accardi e Alfredo Chighine, poi Roma (Il Poliedro, 1973) e ancora Milano (Palazzo Reale, 1975) per un rencontre sur la peinture de signe alla presenza del venerabile, grafobico Twombly. All’esterno il mondo parla dell’inflazione, della crisi energetica, di una classe politica ambigua e individualista che con le sue reticenze sta preparando, di fatto, il terreno al terrorismo delle Brigate Rosse. La disaffezione degli intellettuali e della società civile verso le
questioni cittadine aumenta; a Milano una periferia già preda della speculazione edilizia, muore addosso al centro afflitto a sua volta dallo spopolamento dei residenti e dall’accaparramento immobiliare del terziario; si vende droga dappertutto e per andare al ristorante devi suonare il campanello. E’ in questo scenario opaco che chiudono, uno dopo l’altro i cinema d’essai, sostituiti dal vietato ai minori, le botteghe artigiane per far posto alle banche, i biliardi smantellati in favore delle sale-giochi e le gallerie d’arte per gli show-room riservati al mercato onnivoro della moda. Brera era, solo dieci anni prima la rive-gouache italiana forte di un tessuto connettivo che si nutriva della trama tortuosa del quartiere, approfittando della sua specificità topografica e di un certo policentrismo anarchico compreso fra il cortile dell’Accademia, i tavolini del “bar delle Antille” e la cucina delle locande a credito. In pochi anni chiuderanno la Galleria Schettini, la Bitossi, la celebre Galleria del Naviglio, il Milione; Lorenzelli si trasferirà a Porta Venezia, da Marconi c’è una perquisizione mentre Cardazzo va in giro per il mondo scambiando raffinatissimi Capogrossi per tubi luminescenti (di Flavin) e scampoli di feltro sdrucito (di Beuys). Al popolo dell’arte si sostituisce così il mercato con le sue leggi acerbe, tradotte nelle pratiche frettolose della compravendita operata dai cambiavalute in doppiopetto di Via Bigli, sullo sfondo asettico delle aste riservate, della quotazione a punti e di una città mutata, che traffica, nasconde e si vergogna.
Il linguaggio nel frattempo si rinnova, si affina: la figurazione sbiadisce sotto i colpi violenti del pennello che ora insegue nuove ritmiche riallineando giaciture, correggendo traiettorie incerte, riscoprendo indicazioni gestuali ormai lontane dalle sfumature descrittive degli esordi; Pogliani ha viaggiato molto, ha confrontato i suoi temi con quelli dei numerosi coinquilini alle collettive, ha parlato coi maestri ed ha scoperto, come scosso da nuove pulsioni, il brivido incontrollabile della scrittura automatica degli americani ai primordi del Pop. Era l’action painting di Pollock, Rauchenberg e De Kooning a infrangere con moti sussultori l’esistenza di una qualsiasi progettualità dell’opera, a negare itinerari geometrici o prospettici preordinati, a fregarsene delle masse e della composizione per sconfinare, al limite, oltre i margini della tela. Ma l’idea della scrittura automatica, di un’azione pittorica legata alla ripetizione del gesto, come movimento cinetico del corpo nello spazio –e alla sua proiezione grafica su una superficie– non viene colta in termini processuali quanto piuttosto espressivi; il dripping in Pogliani è spesso una tessitura, ha la consistenza strutturale di una trama e all’opposto, coagulandosi sottoforma di colatura, si manifesta ora come efflorescenza luminosa sorta ai margini di una composizione per masse cupe, ora come l’eccezione schizofrenica che monta da uno spartito regolare di campiture piatte.
E’ in questo momento che si compie il passaggio da una fase di apprendimento –di tirocinio progettuale– a una fase di scoperta, alla definizione di un metodo riconoscibile che assume il tono sicuro dell’identità e dell’elaborazione originale. Non è infatti improprio far coincidere a questa scoperta l’origine di quel prolifico e fortunatissimo periodo segnico di Aldo Pogliani –una compensazione analogica, si dirà– in risposta alla vistosa assenza del disegno all’interno di una pur composita produzione. Assenza di un disegno inteso tuttavia come bozzetto, come schema preparatorio o compiuta espressione metaprogettuale dell’opera definitiva e non certo come metodo espressivo: il veicolo linguistico della grafica sarà invece lo strumento privilegiato di un periodo, caratterizzato da un’insistita ricerca di definizione dello spazio totale. Aperti gli occhi sullo spazio in cui atomo e cosmo, così come “sé” e “altro-da-sé” si identificano, ecco liberarsi dal vitalistico punto di fusione tra forma ed energia, un magma germinante a comporre lo sfondo a-prospettico di placide deflagrazioni cosmiche, punteggiature luministiche, distese velature atmosferiche che sembrano interpretare lo spazio come lirica evocazione di una natura celeste, o forse, di avvenimenti astronomici a specchio di meditazioni e naufragi nell’infinito. Titoli come “Appunti per un pianeta fresco”, “Il pianeta come festival” e “Apocalisse gentile”, risuonano nelle opere grafiche di questo periodo rimbalzando dalle performances dissacranti
dell’universo radical e controculturale che fa capo a un architetto visionario come Ettore Sottsass, più che ai “compagni d’avventura” Tancredi, Dova, Dangelo e Tobey.2 E d’altra parte le citazioni colte e i riferimenti al mondo espressivo di artisti –già vendutissimi e di successo– si sprecano: a Lucio Fontana, circa l’intervento diretto, manuale, su uno spazio inteso come fenomeno organico, da modellare con gli strumenti messi a disposizione dal progresso tecnico –eluso ora in favore di un’acrobatica simbologia segnica–; a Dova per la trascrizione orbitale del moto atomico in sovrapposizioni ossessive –ripresa qui con cancellature improvvise– e a Tancredi, per le figure leggere da scoprire sotto lo spessore caotico di segni impazziti –interpretate dal Pogliani attraverso casuali accostamenti cromatici–. Se il sistema galleristico milanese ha ormai ceduto il ruolo di osservatorio permanente sulle avanguardie artistiche di area e internazionali, è questa volta l’occhio rotante e imperscrutabile di una telecamera a seguire la mano dell’artista, partecipando ai movimenti compulsivi della punta sulla tela per poi staccare su quella smorfia fugace, di disprezzo, che precede i ritocchi finali e anticipa il distacco dal lavoro. Siamo in coda a un TG1 serale dall’inevitabile corollario di bombe, attentati e tafferugli di una televisione che ha ancora due reti e che guarda i disegni di Pogliani in differita
fra le quinte di una ricca esposizione romana –accostati in un montaggio parallelo con l’officina di Città di Castello da dove Alberto Burri sta innescando alcune piccole, meravigliose combustioni (I Maestri della pittura moderna/L’Informale. Burri-Pogliani, 1975). La televisione non salverà l’arte e anche il mercato registra una prima grande crisi delle vendite; le quotazioni fluttuano al ritmo infuriato della Borsa che fa registrare il deprezzamento dell’informale –e più in generale della pittura astratta– in favore delle super quotazioni del neo-figurativo a conferma del consenso crescente, anche in area speculativa, che la transavanguardia raccoglie in giro per il mondo3. L’ultimo scorcio del decennio è infatti segnato dal trionfo improvviso di un movimento nascente, imposto dal critico-guru Achille Bonito Oliva alla guida di un manipolo di giovani artisti accomunati dall’interesse per l’esoterico, la magia, il simbolismo di Gauguin e le affabulazioni semantiche di Beuys. Il fenomeno, legato all’ambiente artistico e intellettuale romano, sposta immediatamente l’interesse della critica da Milano a Roma e poi a New York dove il gruppo transavanguardista troverà un terreno ideale per la propria consacrazione mediatica, celebrando al contempo il battesimo di un’autentica fortuna commerciale. Milano dunque tradita, Milano abbandonata, Milano come un set in allestimento per il debutto di quel “decennio degli effetti speciali” che la porterà sul lastrico e in tribunale, davanti a un giudice, dieci anni dopo. Il pendolarismo radical-chic di Aldo
Pogliani per la verità era già iniziato da un pezzo, almeno da quando aveva deciso di eleggere Sanremo e la riviera del ponente ligure a ritiro periodico, come destinazione di trasferte sempre più frequenti e sempre più lunghe: –era un lampo poi da lì sconfinare per un paio d’ore a Nizza o per una puntatina a Montecarlo– che lo porteranno al congedo degli anni Ottanta dalla sua città. In città non si lavora più, non c’è più l’ambiente: gli artisti come i politici, sono presi da un individualismo esasperato che richiede sforzi autopromozionali, che obbliga al presenzialismo opportunista alternando la scena del confronto fra il tinello e il salotto. A Sanremo si sta bene anche d’inverno e Montecarlo costa. Lo studio di Vincenzo Monti nel frattempo è in vendita e la donna sulla macchina è un’altra –la filiforme Miss Italia ’76– che Pogliani non ritrarrà mai e che nessuno ricorda ma che siede al suo fianco, osservandolo mentre dipinge in uno spumeggiante pomeriggio di aprile. E’ durante il soggiorno rivierasco che prendono forma le nuove tramature ritmiche, invase dal chiarore tonale delle albe marine intraviste sotto la coltre opaca dei cieli invernali; è su questi fondi disgregati in centomila particelle di luce che l’autore si manifesta e interrompe, censura, cancella. Si può dire che il lavoro di Aldo Pogliani da questo momento sia caratterizzato da una progressione compositiva attuata per contrapposizione dialettica fra segno
e materia: linearmente connotato, il primo assume il corpo deciso di un tratto, di una linea flessuosa e orbitale, di scheggia o pennellata sottile e ancora di graffio o incisione; coprente invece è la seconda, che trae forma al variare dello spessore tecnico dello strumento utilizzato per la sua stesura. In tale procedimento è però fondamentale distinguere la progressione logica di avvicendamento dell’uno sull’altra; il segno è sullo sfondo a strutturare una trama primaria, mentre la campitura materica stesa a pennello, a spatola o brutalmente gettata a generare una macchia, vi si sovrappone. Il segno in fasi successive riaffiora, a volte per reazione chimica, in trasparenza da sotto la materia, più spesso per intervento diretto sottoforma di graffito.Vi è in ultimo un preciso rapporto gerarchico fra la fisicità delle due azioni –quella del segno e della sua coercizione materica– che si precisa in chiave espressiva con l’avvicendamento ritmico dell’una sull’altra e che si alterna in continue dilatazioni e contrazioni, laddove l’opera si esibisce come organismo vivente e autoprogettante. Visto sotto questa luce –analizzato cioè in chiave ermeneutica– il piano a due dimensioni della tela si rappresenta quale campo di una sfida continua, giocata fra l’autonomia genetica di una forma che si realizza per processi chimici e la sua antitesi: lo sforzo di correzione, di riallineamento, di riconduzione al progetto proprio di ogni intervento artistico. Fra il 1979 e l’82 il tema sembra conformarsi con fedeltà alla metodologia, assecondando all’inizio
la ricerca segnica del periodo precedente, dai cui esiti affiora una decisa predilezione per la geometria piana, quasi a voler imporre una direzionalità prospettica all’universo omogeneo degli sfondi. In un secondo tempo è tutto un procedere per segni e successive cancellature, per sottili trame e orditure grasse sovrapposte; fino alla campitura, poi alla macrozona e infine alla monocromia. Al fondo di tale esperimento non ci sono gli A-chrome di Mario Schifano, né Yves Klein con i suoi monocromi, non c’è la nudità dell’arte concettuale e nemmeno l’espoliazione formale dei suprematisti; non l’Optical; non il minimalismo. C’è invece l’asciuttezza di una scelta, l’adesione a una ricerca sostenuta allo stremo delle forze attraverso l’osservanza di un digiuno radicale rispetto alle tentazioni persuasive della tendenza, alle indicazioni del critico che viene a farti visita; c’è la sensazione fredda che anticipa un ripensamento che non vuoi affrontare; c’è un tiro di sigaretta più profondo degli altri mille di una giornata strana e il dimorare all’aperto di un uomo che guarda quello che succede dentro. Di più: il riconoscimento di un metodo identificabile, nella serie dei singoli progetti, come continuità tipologica a partire da una matrice originale –ravvisabile nell’incedere ritmico degli sfondi obnubilato dalla sovrapposizione muta della materia– si è trasformato in una necessità analitica; l’urgenza comunicativa dell’opera viene ora
riconosciuta dal suo autore e dunque nominata, numerata, classificata entro una serie progressiva. Nasce così l’acronimo onomatopeico del Tass. Tra. Rit., affibbiato per la prima volta a una pioggia di tempera condensata in una tela venuta alla luce nel­l’inverno del 1982 dopo un lungo, obbligato congedo dal cavalletto per una polmonite. Tass. Tra. Rit! Uno starnuto? O forse la congiunzione abbreviativa di quella triade processuale che è la radice tettonica dei dipinti di Pogliani: tassellato, tramatura e ritmica? Il suono vagamente onomatopeico che ne deriva poi, rimanda a suggestioni acustiche altrettanto persuasive e comunque sempre associabili ad una pratica, a una dimensione tecnica, a un lavorìo che alterna gesti automatici a rintocchi brevi, a graffi, abrasioni; ad ostinazioni grafiche in margine a una superficie, oggettivandosi nel rumore sgranato di una pressione che sfida la resistenza ruvida della tela. E poi il black-out. Gli anni Ottanta, il “decennio dell’ottimismo” condensato nell’infausto slogan elettorale “E la nave va!” pronunciato dal più eminente uomo politico di allora, non si adatta alle vicende personali ed artistiche di Aldo Pogliani dello stesso periodo che, passati vitalismo idealistico e tensione creativa degli anni precedenti, sembra piuttosto preludere a un découpage artistico fatto di solitudini e ritiri forzati, di astinenze e allontanamenti più o meno volontari dai luoghi della produzione e della partecipazione. Peserà su questa svolta improvvisa e sulle sue inevitabili conseguenze,
la scelta di riavvicinarsi a Milano, di tornare in una città ubriaca di ambizioni politiche come nemmeno Roma, smaniosa di traguardi finanziari che stravede per la moda e per il design convertiti, sotto l’etichetta ambigua dell’“Italian Style”, ad unico prodotto esportabile di quella tradizione lombarda –culturale e artigiana in altri campi ormai dismessa. Persi i contatti con il mondo della critica, fatto un giro per e gallerie private –sbiadite dietro la mole retrospettiva sui Grandi del Novecento offerta dagli spazi istituzionali (lanciata in chiave di marketing in un clima di vistosa astensione interpretativa)– incontrati i vecchi amici afflitti dalle stesse crisi quando non assoldati dall’industria pubblicitaria, la strada più probabile sembra essere quella della rinuncia. Rinuncia all’impegno divulgativo e ai suoi rituali; rinuncia alla partecipazione a mostre individuali, al loro inevitabile contorno mondano e para-intellettuale; rinuncia all’esibizione della propria faccia associata a quella dei figli: quelle tele che intanto infittiscono di tracce a caduta verticale, suggerendo letture ascensionali contraddette da variazioni timbriche che riportano al fondo dove giacciono, ammassate e irrecuperabili, le nottate sgargianti degli anni Settanta. Delle incertezze, del disagio procurato da nuove costrizioni e di quella solitudine distillata in nuovi ambienti di lavoro –non più l’atelier frequentatissimo nel cuore della città ma un unico indirizzo ora, per studio e abitazione– non
c’è traccia nelle tematiche sviluppate in seguito. E’ invece facile imbattersi in una nuova vibrazione cromatica alimentata da partiture acriliche che accostano, neutralizzandole, la dodecafonia espressionista di Mahler con le figurazioni musive delle basiliche ravennati. A questo si riferisce la tassellatura –primo argomento dell’unità dialettica del Tass.Tra.Rit.– quando individua nel modulo del mosaico vitreo e nel suo delicato schema di posa –il tessellatum, appunto– l’archetipo formale di una nuova aggettivazione espressiva. Con infinite varianti e sovrimpressioni: quella della cornice ad esempio, che sembra implodere nell’opera attraverso la contrazione materica dei margini fino a comprimerne il contenuto; e quella emotiva, che interpreta il mosaico pittorico degli sfondi come un ambiente dove alloggiare - con garbata ospitalità - strane presenze umane dall’aspetto incredulo. Ha inizio così la malinconica epopea degli Amici. Una ricerca questa, sviluppata con varie interruzioni e ripensamenti a partire dal 1985 e fino ai primi anni Novanta, sperimentata su tele di grande formato –mai sotto il 130x130– spesso dovuta al riciclaggio di progetti materici interrotti o abortiti. Bastano alcuni passaggi di spatola, quella larga usata in edilizia dagli stuccatori, tirata a definire dapprima le diagonali della tela, poi il perimetro e infine a riempire i vuoti; una coltre di biacca lascerà trasparire in velatura il quadro precedente sul quale appariranno, come da un casellario giudiziale, i volti allungati degli amici di Aldo Pogliani: tutti col naso
adunco e dal profilo tagliente, col mento affilato e l’occhio triste; altri strafottenti dall’aspetto ridanciano e disperatamente folle. Vengono alla mente i dissociati protagonisti dei fumetti di Andrea Pazienza come il cinico Zanardi, lo schizofrenico liceale del Movimento bolognese, il “Cionco” e lo stesso “Paz” ritratto di profilo sulle copertine di “Cortomaltese” e “Frigidaire”; ma anche gli omuncoli di Dubuffet, i diavoletti erotici di Lam e gli UFO di Sebastian Matta. Si tratta in realtà di un omaggio commosso alle molte persone incontrate in quel periodo buio della vita passata a cullarsi fra i dubbi, i circoli della Bovisa e i mille tram lasciati passare sotto le finestre; forse è a loro che si deve la propria arte: a loro che non ne sanno niente ma che hanno facce, volti, espressioni che ti rimbalzeranno in testa per un bel po’. Fra questi compagni di strada c’è un cane, Rastie, una lupa dal mantello bruno e dallo sguardo acuto che accompagnerà come una dama l’ultimo trasloco di Aldo verso Teglio, sua attuale residenza. La Valtellina non è però il luogo dove “riparare”, il rifugio nel quale ritirarsi dopo le turbolenze di una vita navigata a vista; Teglio in particolare è piuttosto l’hortus conclusus di una società imprenditoriale e dinamica ma anche sufficientemente aristocratica per riconoscere nelle vestigia del proprio passato, il motivo della propria identità civile e i caratteri del proprio sviluppo. Meta di un turismo di lunga
tradizione e cuore di un mondo agricolo dalle radici arcaiche, affida al vino e alle sue mitologie il proprio benessere, derivando la propria singolarità morfologica dalle stagioni obbligate della sua produzione. Pertiche di vigneto rigato come le coste di un velluto a digradare verso il fondovalle; selle, promontori orografici, pianure sospese a mezz’aria come strappate all’asprezza della montagna; e poi cime e pendenze intraviste fra i baluginii della luce riflessa dalle nevi invernali e ancora, a scendere, linee d’acqua, specchi, vallate. Sono le terre d’attorno il tema che affiora, a intervalli irregolari, dai Revival di Aldo Pogliani: di nuovo come agli esordi, è possibile apprezzare il colore e la leggerezza di evanescenti apparizioni atmosferiche a descrizione di paesaggi consueti, a cogliere la naturalità di un attimo che disegna, sfuma, dimentica. –La memoria: ecco sì, la memoria è il vero unico soggetto che mi interessa cogliere e restituire di un paesaggio– anche se il risultato è quanto di più lontano dall’istantanea fotografica; è invece una restituzione mentale, un’espressione carica di emotività e suggestioni culturali; è forse il risultato di una trascrizione percettiva sommata all’intera storia esperienziale dell’artista; è, di nuovo, la visione laterale e obliqua di Pogliani sulle cose del mondo. Lo si vede qui, nella pittura di genere, nei paesaggi orobici visti dalle finestre oltre la siepe che divide la casa dalla strada; lo si vede nelle ultime serie informali, adattate per l’occasione –e per una compiaciuta adesione all’arte povera non estranea a
contaminazioni vernacolari– a porte e a finestre, fondi di cassetta, a persiane “a scuretto” in abete tarlato. “E qui, fuori dal palazzo dove lo Stato interroga lo Stato piove” e piove veramente: una pioggia acrilica di colori vivaci a comporre un’insolente striatura verticale simile a quella concreta, che ti sorprendi a calpestare –senza troppa irriverenza per le arti applicate– nel soggiorno tellino dove è adagiato un antichissimo tappeto “pezzotto”, con il cane e il camino acceso. Altri temi arricchiscono poi la progressione sperimentale degli ultimi anni, conferendole una connotazione spesso ironica e disincantata. Si pensi al ciclo dei Retouché, gli interventi pittorici esercitati ex-post a completamento di opere fotografiche dai soggetti svariati o su riproduzioni a stampa digitale di quadri precedenti; oppure ancora al ciclo plurimaterico che eleva in un accostamento straniato, gli scarti della quotidianità ad opera colta. Agendo con disinvoltura nel rapporto semiotico esistente fra significato e significante, l’oggetto banale, il prodotto commerciale d’uso quotidiano nuovo e usato assurge, secondo una nuova collocazione, a componente strutturale di un’inedita costruzione materica, che rifiuta il facile accostamento con le espressioni dadaiste del primonovecento, per riaffacciarsi ancora una volta alle tematiche dell’action painting. Sono centinaia di mozziconi di sigaretta rappresi sulla superficie della
tela e coperti da fitte colature a tempera, che si sovrappongono con andamento oscillatorio e spigoloso a imitazione delle tracce di un sismografo. Si fuma molto, a Teglio, e ancor più ci si diverte: ci sono dei tavoli quadrati in un caffè aperto sulla piazza che parlano di queste e di altre avventure.

L.Guerra
2006 - Mantova e una donna, catalogo della mostra omonima, Custercast, 2006

2008 - Fumo, catalogo della mostra "Aldo Pogliani. Fumo", DART-Chiostro del Bramante, Roma, 2008 (mostra)

2004 - Pogliani all'ex-Casa del Fascio di Lissone, presentazione della mostra a Palazzo Terragni, Lissone, Milano
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Studio Murimani