Riflessioni sulla pittura di Aldo Pogliani, commento alla mostra “Omaggio alla Valtellina” tenutasi nel novembre 1994 presso la chiesa di Sant’Antonio a Morbegno.
Il nome di Aldo Pogliani mi era già noto per averlo sentito o per averlo letto su qualche rivista
d’arte e lo collegavo a tante piccole tracce di colore, quasi un’immagine da caleidoscopio, distesa
con cura sulla tela. Ma la conoscenza dell’artista è avvenuta una sera di autunno a Teglio, in una
riunione conviviale di amici: egli mi si è presentato con gentile affabilità in compagnia di un
grosso cane nero e, quasi subito, è cominciata una conversazione spontanea, priva di formalità
che trascorreva rapidamente dall’arte moderna ai pizzoccheri. Questa è la figura dell’uomo che
ha dipinto i numerosi pezzi esposti nella sua personale di Morbegno. Direi che la spontaneità del
carattere lascia un segno tangibile anche nella sua pittura; infatti, in essa, al di là delle differenze
che appartengono al variare delle stagioni creative, è possibile scorgere un bisogno naturale della
rappresentazione, una necessità fisiologica di definire se stesso mediante il colore.
Con ciò, non voglio certo dire che vi sia in lui uno spontaneismo privo di fondamenti teorici; tutt’altro,
l’autore costruisce le sue opere seguendo una precisa attività di ricerca all’interno dell’arte moderna,
che si snoda non solo attraverso un attento studio delle tinte e
delle possibilità dei loro accostamenti
(proprio pochi giorni fa mi spiegava quanto tempo aveva impiegato per poter usare nella maniera ottimale
il bianco, perché non desse l’impressione del gessoso e del morto e mi faceva notare come in tale errore
fosse caduto lo stesso Guttuso successivo agli anni cinquanta), ma anche attraverso la conoscenza delle
opere e dei pittori che a creare l’arte moderna hanno contribuito. E’ da rilevare, poi, come egli sia
attento a cogliere in ogni ambito tutto ciò che vi è di positivo e ad elogiare piuttosto che a designare
ogni sorta di opera che si trova di fronte. Atteggiamento di onestà intellettuale estremamente encomiabile
che evidenzia la sua capacità critica di lettura e che comprende un fattore di capitale importanza:
la pittura, intesa nel senso alto del termine, è, come ogni altra arte, una via di conoscenza dell’individuo
che la attua e del reale che lo circonda. Pertanto, di fronte ad un quadro, si può affermare che questo è più
o meno rispondente alla sensibilità o al gusto di chi lo guarda, che dimostra e non dimostra una particolare
abilità tecnica da parte del suo autore; mai, assolutamente, che è un fallimento, perché, in
questo modo, si darebbe un giudizio per nulla corretto, da un punto di vista in primo luogo morale, sull’interiorità dell’individuo
che si è cimentato nella sua realizzazione. “Delle cose umane non si deve né ridere né piangere, ma capire”,
anche perché capire gli altri diventa la via maestra per capire se sessi.
Il titolo dell’esposizione è Omaggio alla Valtellina, perché la maggior parte delle opere qui esposte sono state concepite e
realizzate durante la permanenza in Valtellina di Pogliani”. Siamo, dunque, di fronte ad un’interpretazione dello spazio in
cui viviamo ed il pittore stesso si interpreta all’interno di tale spazio e ne diventa un elemento. In questo modo, può
esprimersi attraverso la figuratività, non certo calligrafica e basata sul disegno, ma sempre attuata mediante il gioco
dei colori. Si hanno, pertanto, dei paesaggi variabili dalle tinte calde che suggeriscono la forza prorompente della primavera
e dell’estate, dove predominano i gialli, i blu scuri e i rossi, alle tinte più tenui del pastello, dei bianchi e dei grigi,
che suggeriscono, a loro volta, lo sfumato dell’alba e l’atmosfera ovattata di certe giornate d’autunno e d’inverno: alberi
iemali che si stagliano su un intrico di dimensioni, dove trovano luogo montagne, corsi d’acquea, laghetti alpini e tutto
quanto uno riesca a vedere nella immagine. Il paesaggio, così, non copia la realtà, facendone qualche cosa di morto, ma
la continua, la crea (è la figura dell’artista come piccolo
dio) e da paesaggio esterno si trasforma in paesaggio dell’anima. L’interno, l’autunno, la primavera e l’estate, prima di
essere elementi esterni, sono dentro di noi. Ancora più significative, a mio avviso, sono le opere “astratte”. Qui, meglio
che nel figurativo, emerge quel complesso groviglio che non è mai fermo, ma che sempre si muove della nostra interiorità.
Le tinte sono, in un certo modo, i passaggi degli stati d’animo, e piuttosto, le contraddizioni e le promiscuità che in
uno stesso stato d’animo sono presenti: l’io che, in maniera prepotente, si proietta sulla tavole. Si noti come, in questi
tutte le opere, vi sia una continua metamorfosi di figure geometriche che si formano e si trasformano in un evolversi che
non trova sosta e che manifesta una vitalità prorompente: lo stato d’anima di partenza può essere anche doloroso, ma, nel
chiarirsi a se stessi, conduce ad un mondo armonico, ad una specie di purificazione.
I materiali che Pogliani impiega sono, di sovente, materiali poveri (pezzi di legno, porte e assi recuperati nelle discariche cittadine)
e il colore mantiene sempre una forte corposità, tanto da sembrare quasi in rilievo. Questo da una parte, può riguardare le origini di
tale pittura che ha le sue radici nella Popart; ma dall’altra, scendendo più in profondità, si collega agli stessi caratteri e tematiche
delle opere.
La materia è bene, non è male: essa passa sotto i nostri sensi e determina i nostri stati d’animo e la materia con cui noi
condividiamo l’esistenza è solo raramente quella eletta e ricercata, ma, per lo più, è quella povera e concreta della vita di ciascuno.